sabato 15 giugno 2013

[01]

E' la terra che si insinua sotto le unghie quando scavi e l'aria umida dal terriccio bagnato che incolla i polmoni, la pressione della luna che non puoi più vedere: te la sei perso mentre grattavi il fondo del pozzo. E spingi, spingi più giù le dita dove prima c'era la melma e mentre lo fai ti ritrovi vilmente a pregare l'unico dio che conosci affinché ritorni, non lui... la melma, ovvio. 
E ti senti un vigliacco ingrato, ma finché sguazzavi in quella natura in putrefazione riuscivi ancora a sentire la vita... che ti abbandonava. Ma anche lei se n'è andata. Anche la melma ti ha lasciato solo, e non capisci perché continui convulsamente a raschiare, a farti saltare via le unghie insieme alle pietre che trovi sotto le tue putride ginocchia. E gridi al cielo pietà ed implori la morte a non sai nemmeno tu chi o che cosa, ma intanto continui a scavare: se non ti salveranno le tue mani convulse almeno sarà servito a farti una tomba, ti dici. 
Alzi gli occhi e il buio ti avvolge, li riabbassi e senti scorrere via l'umano che è in te. Lo capisci perché ti assillano sempre più frequentemente quei pensieri, quelli senza parole, quelli che ti dicono troppo in troppo poco tempo, che con un unico sol balzo di energia ti potrebbero svelare il mistero della nascita di un fiore in un deserto di sabbia e lacrime, di cemento e sangue. Ti ritrovi così a sputare la bestia che hai paura di riconoscere in te.
Così questa volta ti sforzi di pensare come ti hanno insegnato fin da piccolo: con le parole, e lo fai ad alta voce (meglio che ti senta, meglio non perdere la coscienza di sé) ripetendo, più convinto di quanto credevi di essere, che in fin dei conti se stai grattando il fondo significa che speri ancora, e se speri non sei morto.
Ma poi venne Il Pensiero e seppe. Seppe che era già morto.